Privacy violata se il certificato indica la malattia al datore di lavoro?

La Suprema Corte di Cassazione, terza sez. civile, con l’Ordinanza n. 2367 del 31/01/2018, ha affrontato un tema molto delicato.

Quello cioè che riguarda le possibili violazione della normativa sulla privacy in merito ai dati sensibili ed in particolar modo, quando si parla di dati sanitari, valutando la possibile esistenza di un danno risarcibile, qualora si commetta questa violazione.

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Gestione della privacy rapporto di lavoro

Sappiamo che, in caso di assenza dal lavoro per uno o più giorni, per motivi di salute, è necessario presentare al datore di lavoro un certificato medico.

Il Garante della Privacy ha fornito alcuni chiarimenti nel caso di attestati rilasciati dalle strutture ospedaliere, indicando i requisiti che questi devono avere, e più in particolare, le informazioni che non possono essere contenute al loro interno, al fine di non incorrere in violazione delle regole sulla privacy

L’Authority, ha infatti chiarito che, sui certificati medici rilasciati da enti pubblici devono essere presenti solo informazioni generiche. Questo significa che non vi devono essere dati di carattere personale circa: lo stato di salute del paziente; il nome della struttura sanitaria; la tipologia di esame diagnostico effettuato; la tipologia di visita effettuata etc..

Bisogna garantire la riservatezza dei dati personali, ancor più se sensibili, del paziente/lavoratore.

Pertanto, il datore di lavoro (sia esso un soggetto pubblico o privato), innanzitutto non può svolgere indagini tese a verificare se la certificazione di malattia del dipendente, attestata dal medico curante, sia vera o falsa. Né può effettuare accertamenti sanitari sull’idoneità e infermità per malattia o infortunio dei propri dipendenti.

Dal canto suo, il medico è obbligato a non divulgare a terzi le condizioni di salute dei propri pazienti e, nei certificati medici legali che attestano l’idoneità al servizio di un lavoratore, deve essere riportato il solo giudizio medico legale, senza diagnosi. Il certificato deve avere carattere generico, senza alcun riferimento agli aspetti personali riguardanti il paziente.

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Legge sulla privacy e certificati medici

Nel caso di specie, il ricorrente ha impugnato la sentenza della Corte d’Appello di Napoli, con la quale era stato confermato il rigetto della domanda di risarcimento danni avanzata dinanzi al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere nei confronti di un medico fiscale.

Il medico era ritenuto da lui responsabile dei danni subiti e conseguenti nell’invio al preside del locale Liceo Ginnasio Statale, presso il quale insegnava materie letterarie (e dal quale si era assentato per malattia per 21 giorni), della copia del referto medico destinata al datore di lavoro in cui era stato riportata che il docente era “in attesa di consulenza psichiatrica”.

Il ricorrente, impugnando la sentenza, con il primo motivo, ha dedotto la violazione o falsa applicazione dell’art. 5 L. n. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) e del D.M. 15 luglio 1986 ( recante la disciplina delle visite mediche di controllo dei lavoratori da parte dell’Istituto nazionale della previdenza sociale), in quanto il giudice d’appello si era limitato ad escludere la violazione delle norme affermando che nel referto trasmesso alla direzione della scuola non vi era stata l’indicazione della diagnosi ma unicamente la prescrizione di una visita specialistica.

Il ricorrente, sottolinea però che la Corte aveva omesso di considerare che l’accertamento sanitario prescritto era fortemente indicativo della natura della malattia ipotizzata (trattandosi di accertamento psichiatrico) e doveva farsi, dunque, rientrare nella categoria di informazioni per le quali era preclusa qualsiasi forma di divulgazione.

Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 360, n. 5 c.p.c., per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, consistente nell’afferita assenza di nesso etiologico fra la condotta del medico fiscale ed i comportamenti diffidenti e derisori posti in essere da familiari e colleghi dopo la divulgazione di tali notizie.

Con il terzo motivo, il docente ha lamentato l’inosservanza della normativa sulla privacy, affermando che non vi era alcuna ragione, collegata ad un interesse pubblico, che legittimasse la diffusione della notizia concernente la prescritta consulenza psichiatrica. Deducendo che da tale violazione gli era derivato, in via diretta, un grave pregiudizio, riconducibile alla condotta del medico. Danno rispetto al quale, non era tenuto ad assolvere, diversamente da quanto affermato dai giudici di merito, alcun onere probatorio, trattandosi di danno in re ipsa.

Con il quarto ed il quinto motivo, il ricorrente lamenta che il giudice di appello: non aveva esaminato le norme di legge che tutelano la privacy, incorrendo così nel vizio di omessa motivazione. Aveva travisato i fatti, ritenendo che nessun comportamento illecito potesse essere ascritto al medico, non considerando che l’annotazione riportata sul certificato, portata a conoscenza dell’autorità scolastiche, aveva portato richiedere un accertamento medico collegiale psichiatrico, con il suo conseguente isolamento all’interno della comunità scolastica e parentale.

I Giudici della Suprema Corte ritengono sicuramente sussistente la violazione in materia di privacy ai danni del ricorrente, ma in realtà, per quanto la condotta del medico sia stata censurabile, la Corte afferma che da tale comportamento non sia comunque configurabile l’esistenza di un danno nei riguardi del ricorrente.

Interessanti sono le argomentazioni adottate dagli Ermellini in questa pronuncia.

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Privacy malattia dipendente: pronuncia Cassazione

Infatti, la Corte sostiene che almeno due motivi del ricorso contengono rilievi fondati sulla complessiva censurabilità della condotta del medico fiscale, che in sé, poteva comportare danni morali per ricorrente: con il primo motivo il ricorrente lamenta che la Corte avrebbe erroneamente interpretato l’art. 5 L. n. 300 del 1970 ed il D.M. 15 luglio 1986, ritenendo legittima ed irrilevante l’annotazione sul referto medico della circostanza di essere in attesa di una consulenza psichiatrica.

Con l’altro motivo si duole del fatto che la Corte aveva erroneamente escluso che la condotta del medico fiscale, illegittima, avesse arrecato una lesione all’immagine del docente nonostante le ripercussioni esistenziali descritte e consistenti nell’allontanamento e nella diffidenza maturata nei suoi confronti dagli amici, dai parenti e dai colleghi.

Tuttavia, secondo i giudici di Cassazione, la prima censura non è utile all’accoglimento del ricorso ed impone anche la reiezione dell’altro motivo in esame.

È chiaro, dalla lettura dell’art. 6 del D.M. 15 luglio 1986, che la riservatezza imposta nella refertazione del medico fiscale esige che non debba essere annotata sulla copia per il datore di lavoro la diagnosi del paziente.

La norma prevede infatti che “al termine della visita, il medico consegna al lavoratore copia del referto di controllo, ed entro il giorno successivo, trasmette alla sede dell’Istituto nazionale della previdenza sociale le altre tre copie destinate rispettivamente, la prima, senza indicazioni diagnostiche, al datore di lavoro o all’Istituto previdenziale che ha richiesto la visita, la seconda agli atti dell’Istituto nazionale della previdenza sociale, la terza per la liquidazione delle spettanze al medico e per assicurare un flusso periodico di informazioni sullo sviluppo del servizio e sulle relative risultanze”.

Ed è altresì vero che al fine di garantire il diritto alla riservatezza, soprattutto in riferimento ai dati sensibili, quali sono quelli riguardanti le condizioni di salute del dipendente malato, si deve ritenere che il datore di lavoro debba essere a conoscenza solo della conferma della prognosi da parte del medico fiscale, dovendo questo omettere di riferire qualsiasi indicazione (anche concernente le visite specialistiche prescritte) dalle quali possa desumersi la diagnosi, per non violare le norme poste a tutela della privacy.

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Conclusioni

Pur tuttavia, il fatto dal quale sarebbe derivato il pregiudizio dedotto dal ricorrente (e cioè l’isolamento dipendente dal comportamento diffidente e persecutorio manifestato dai colleghi e dai parenti venuti a conoscenza dell’accertamento psichiatrico cui era stato sottoposto ed il danno non patrimoniale a ciò conseguente) non si può ricondurre all’annotazione effettuata dal medico fiscale, dovendosi invece far derivare dall’avvenuta divulgazione della richiesta di una visita collegiale psichiatrica da parte del Provveditorato, al quale il preside della scuola aveva trasmesso il referto ricevuto.

Quindi, a parere della Corte, la divulgazione delle informazioni sensibili dalla quale sarebbe derivato il danno dedotto dal ricorrente, non è riconducibile alla condotta del medico, che si è limitato a trasmettere alla scuola la copia del referto di competenza del datore di lavoro (seppur corredato dalla annotazione contestata), ma alla diffusione della notizia dell’accertamento che l’amministrazione scolastica aveva ritenuto necessario compiere e dal conseguente comportamento di amici e parenti che hanno deciso di allontanarsi da ricorrente.

Per cui, la Suprema Corte, sebbene per motivazioni diverse, respinge il ricorso e conferma la sentenza della Corte d’Appello.

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