Compenso dell’avvocato eccessivo, come capirlo?

Si dice che in Italia si fa a meno degli avvocati per via dei costi eccessivi delle parcelle. Meglio soccombere che pagare, direbbe qualcuno, se non fosse che in alcuni casi ricorrere ad un professionista è quasi obbligatorio.

Esistono situazioni in cui diventa necessario affidarsi ad un legale per affrontare una causa, per difendersi da un accusa, o anche solo per chiedere un parere in merito ad una certa situazione.

Poi, però, all’atto del pagamento, ci si accorge che il compenso da versare è sproporzionato rispetto al lavoro svolto.

Ok, quello dell’avvocato è un mestiere difficile che richiede pazienza e tanto lavoro intellettuale. Ma per evitare squilibri e limitare la concorrenza basata sui tariffari esistono dei parametri per calcolare la parcella.

In caso di enormi differenze è possibile adire il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati a cui appartiene il professionista. Detto questo, come si stabilisce se il compenso dell’avvocato è eccessivo?

 USA ORA LEGALDESK, IL GESTIONALE CHE TI IPER SEMPLIFICA IL LAVORO

Compenso avvocato: cosa dice la legge?

Prima di addentrarci nel merito di quanto espresso dal Consiglio Nazionale Forense riguardo le parcelle sproporzionate è doveroso soffermarci su alcune norme del nostro ordinamento che giustificano il pagamento dell’avvocato. Partiamo dall’art. 2233 cod. civ. che riconosce a chi esercita una professione intellettuale il diritto al compenso.

Questo è commisurato all’importanza dell’opera e al decoro della professione. Alla norma citata si aggiunge il successivo articolo 2234 cod. civ. in riferimento alle spese ed agli acconti che il cliente anticipa a favore dell’avvocato. Secondo la legge il cliente, salvo diversa pattuizione, deve anticipare al professionista le spese occorrenti al compimento dell’opera e corrispondere, secondo gli usi, gli acconti sul compenso.

La disciplina codicistica viene ripresa in tutto e per tutto dal Codice Deontologico Forense che, all’art. 29, enuclea i principi attuati per la richiesta di pagamento.

L’intero articolo è indirizzato a far sì che la parcella sia proporzionale e commisurata alle tariffe vigenti, oltre al tipo di prestazione eseguita.

Dice infatti la norma che l’avvocato può chiedere la corresponsione di anticipi, ragguagliati alle spese sostenute e da sostenere, nonché di acconti sul compenso, commisurati alla quantità e complessità delle prestazioni richieste per l’espletamento dell’incarico.

Segue poi un espresso divieto, secondo cuil’avvocato non deve richiedere compensi o acconti manifestamente sproporzionati all’attività svoltao da svolgere.

Alle disposizioni appena indicate si aggiunge il Decreto Ministeriale n. 55/2014, aggiornato al 2018, che riguarda la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense.

Le tabelle allegate individuano le soglie e i tariffari che un avvocato ha il diritto di chiedere in base al tipo di prestazione eseguita ed al valore della causa di cui se ne chiede l’assistenza. Per ogni tipo di attività, dallo studio dei documenti all’introduzione del giudizio per giungere alla fase decisionale, vengono stabiliti dei compensi a cui il professionista deve attenersi.

Lo stesso decreto aggiunge, nei primi articoli, il diritto al rimborso delle spese calcolato nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione. L’art. 2 ribadisce che il compenso dell’avvocato e’ proporzionato all’importanza dell’opera, sottolineando quindi la tipologia di lavoro eseguito dal professionista.

Per la liquidazione del compenso si tiene conto delle caratteristiche, dell’urgenza e del pregio dell’attivita’ prestata, ma anche dell’importanza, della natura, della difficoltà e del valore dell’affare,delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate.

A riconoscerlo è l’art. 4 del medesimo decreto che, in un certo senso, funge da linea guida per la determinazione del compenso nel singolo caso. Addirittura all’art. 7 i compensi sono liquidati per l’opera svolta fino alla cessazione del rapporto professionale qualora l’attività prestata da un avvocato non sia stata portata a termine per qualsiasi ragione.

Quindi il pagamento è dovuto (in maniera proporzionale) anche se la causa non è conclusa: a giustificare il diritto è il lavoro che l’avvocato svolge nel concreto.

LEGGI ANCHE: Calcolo interessi legali

Compenso eccessivo avvocato: cos’è successo?

Con la sentenza n. 9 del 2018 il Consiglio Nazionale Forense stabilisce che per verificare se il compenso richiesto dall’avvocato sia eccessivo bisogna effettuare un giudizio di comparazione fra l’attività espletata e la misura di compenso ritenuta proporzionata, compenso quest’ultimo che poi può essere confrontato con quello ritenuto eccessivo.

Tutto questo perché un avvocato faceva ricorso al CNF in merito ad una sanzione disciplinare emessa dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Trieste. Ma cosa è successo?

Un professionista aveva chiesto la somma di quasi 4.450 euro a due clienti, assistiti dallo stesso in un procedimento di affidamento di minori. La cifra menzionata non era univoca, ma veniva addebitata a ciascuno degli assistiti, per un ammontare di circa 9 mila euro. L’avvocato, nel suo operato, aveva redatto il ricorso introduttivo e aveva partecipato alle prime due udienze: questo tipo di opera giustificava il compenso di cui sopra.

Sopraggiunge un secondo avvocato che, una volta conclusosi il processo di affidamento dei minori (con esito positivo), viene delegato per la cura e l’assistenza nella pratica successoria a tutela dei minori stessi. Nello studio della pratica l’avvocato si accorge della parcella sproporzionata pagata dai due clienti.

Prima di adire il COA, il secondo professionista chiede chiarimenti al primo avvocato il quale riconosce l’errore attribuendolo al software di calcolo della parcella. Nello stesso tempo promette di restituire la somma complessiva di 2 mila euro ai suoi ex clienti. Della stessa cifra vengono rimborsati solo mille euro.

Adito il COA di Trieste, questi commina la sanzione disciplinare sulla base dei seguenti motivi:

  • omessa fatturazione dei circa 9 mila euro.
  • compensi manifestamente sproporzionati rispetto all’attività professionale svolta nel procedimento. Nello specifico il doppio compenso (4.450 euro a ciascun cliente) non era giustificato dato che i due assistiti (erano due nonni) avevano identica posizione processuale.

L’avvocato in questione difendeva la sua posizione indicando l’effettiva attività svolta, più ampia rispetto a quella individuata dalle notule. Ne seguono vicissitudini di diverso genere che conducono il COA di Trieste a comminare la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione per un periodo massimo di 3 mesi.

Alla suddetta decisione l’avvocato propone ricorso presso il Consiglio Nazionale Forense che, analizzati i documenti, le leggi in vigore al momento della vicenda e il lavoro svolto dal professionista, si pronuncia con una sentenza destinata ad essere principio fondamentale per stabilire quando il compenso dell’avvocato può essere considerato eccessivo.

Di fatto il CNF accoglie parzialmente le ragioni del professionista in merito proprio all’eccessiva sproporzione del compenso, elemento su cui il COA di Trieste aveva preso come riferimento per l’applicazione della sanzione disciplinare.

 USA LEGALDESK, IL GESTIONALE CHE TI FA RISPARMIARE TEMPO OGNI GIORNO

Compenso eccessivo avvocato: cosa dice il Consiglio Nazionale Forense?

Il CNF si sofferma proprio sul punto più controverso della questione, ovverosia l’effettiva attività svolta dal professionista e il compenso richiesto ai propri clienti. E riconosce quindi tutte quelle attività che, pur non essendo indicate nelle notule, sono state effettivamente eseguite dal legale.

Non si trattava solo di una difesa in giudizio, ma di una serie operazioni trasversali (con banca, INPS, consulenze, ecc…) che erano state realizzate dall’avvocato. Ma attenzione. Il CNF riconosce, nel concreto, la non colpevolezza dell’avvocato per il semplice fatto che mancano prove certe a confutare quanto affermato dal professionista.

In altre parole non ci sono elementi certi atti a smentire che l’avvocato si sia occupato anche di attività diverse da quelle indicate nel mandato conferito.

Il CNF contesta quanto sostenuto dal Consiglio territoriale dell’ordine degli avvocati il quale, pur essendo consapevole che la sproporzione viene determinata solo dopo aver effettuato un giudizio di comparazione, aveva ritenuto eccessivo il compenso liquidato all’avvocato.

Sulla base di cosa non è dato sapere, perché il COA di Trieste omette di quantificare l’effettivo compenso che sarebbe dovuto spettare al professionista. Cosa significa? Che se manca un riferimento alla quantificazione indicato dal COA, non è possibile stabilire se lo stesso sia sproporzionato o meno in base all’attività svolta.

Il Consiglio Nazionale Forense bacchetta il COA, perché con gli strumenti a disposizione sarebbe stato facile determinare un parametro proporzionale rispetto all’attività svolta: la causa in questione non era complessa e dalle notule era facile evincere quanto sarebbe costato l’operato dell’avvocato.

Se poi si hanno come riferimenti i parametri indicati dalla legge, risulterà ancor più agevole stabilire perché quella parcella sembra essere eccessiva.

Come se non bastasse, la mancanza di prove che determinano con assoluta certezza la colpevolezza dell’avvocato fanno si che egli abbia compiuto attività diverse da quelle indicate dalla notula, quindi abbia svolto un operato ben più ampio rispetto a quello contestato. Ragion per cui la parcella non risulta essere sproporzionata ed in merito a tale motivazione il professionista è stato assolto.

Non è stato assolto, invece, per quanto riguarda l’emissione della fattura, ma anche per l’intera vicissitudine che ha indotto il COA di Trieste ad emettere sentenza di condanna.

Il Consiglio Nazionale Forense spiega che ogni avvocato, nel rispetto dei doveri di probità dignità e decoro, deve agire in maniera leale in ogni ambito della propria attività. Compreso quando si ritrovi ad essere protagonista di un procedimento disciplinare nei propri confronti.

Il principio ribadito dal CNF in riferimento all’eccessiva sproporzione del compenso è stato più volte il fulcro di altre decisioni prese, ad esempio, dalla Cassazione. Perché il lavoro di un avvocato deve essere retribuito considerando diversi elementi che, purtroppo (per i clienti), sono difficili da comprendere.

LEGGI ANCHE: Assistenza legale online, possibile servizio on demand?

Come si stabilisce se il compenso dell’avvocato è eccessivo?

Proprio partendo dal principio del Consiglio Nazionale Forense, secondo cui prima si esegue un giudizio di comparazione stabilendo quale sia il compenso proporzionale. Solo dopo sarà possibile confrontare il compenso richiesto e stabilire se ci sia o meno una sproporzione. Ragion per cui per stabilire se il compenso dell’avvocato è eccessivo bisogna:

1. tenere conto delle tariffe vigenti al momento della richiesta. Abbiamo preso come riferimento il decreto ministeriale 55/2014 che rimodula il tariffario a seconda del tipo di giudizio, dell’operato dell’avvocato e del valore della controversia.

2. considerare la difficoltà dell’attività svolta. Esistono giudizi che richiedono un lavoro di studio meticoloso e ben più ampio di un semplice ricorso dinnanzi al giudice di pace. Si pensi alle cause di lavoro, ai giudizi dinnanzi alle corti d’appello ed alle giurisdizioni superiori (ad esempio in Cassazione) che necessitano di una tutela maggiore e ben articolata. Un avvocato dovrà quindi adoperarsi affinché le richieste del cliente vengano soddisfatte; inutile pretendere un costo irrisorio se si chiede la risoluzione di una controversia in secondo grado.

3. valutare se il compenso sia congruo secondo le consuetudini. Lo dice lo stesso decreto, ma anche la realtà che vede avvocati (in concorrenza fra loro) puntare sulla qualità dei servizi al minimo dei livelli fissati come tariffario.

La sentenza n. 1900/2017 della Cassazione stabilisce che l’art. 2233 cod. civ. funge da garanzia ai criteri di determinazione del compenso di un professionista. Gli usi ed i costumi vengono dopo le tariffe che, a loro volta, fanno seguito all’importanza dell’opera prestata ed al lavoro eseguito.

In questo caso l’attività dell’avvocato assume un’importanza di non poco conto quando si ritrova a dover assistere il proprio cliente in fase di giudizio.

Il cliente che deve pagare una parcella salata ha diversi modi per agire. Innanzitutto ogni professionista è tenuto a fornire un preventivo all’interno del quale individua, in maniera indicativa, il costo della prestazione in riferimento a quanto richiesto dal cliente.

Si tratta di una cifra non definitiva quanto invece orientativa, poiché in corso di giudizio potrebbero capitare eventi tali da richiedere uno sforzo in più, non preventivato in anticipo. Se il cliente non si trova d’accordo con quanto scritto nel preventivo può sempre rivolgersi ad un altro professionista per la medesima consultazione.

È un suo diritto, ma soprattutto un dovere dell’avvocato indicare, seppur astrattamente, i costi che il cliente dovrà supportare in seguito all’assistenza.

Se dovesse capitare di ritrovarsi con una fattura diversa e presumibilmente sproporzionata, il cliente può presentare un esposto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati dove ha sede il professionista. Ma per ricorrere dovrà giustificare la presunta sproporzione fra parcella e tariffe.

Ciò significa che, armato di tanta pazienza, il cliente dovrà analizzare le tabelle tariffarie e stabilire quello che, secondo legge, dovrebbe essere considerato compenso proporzionale.