La Corte di Cassazione è intervenuta in materia di prova documentale, con la sentenza n. 1822 dello scorso 16 gennaio 2018, affermando che i messaggi contenuti nella memoria del telefono hanno valore di vere e proprie prove documentali, ai sensi dell’art. 234 c.p.p.
Ciò significa che i messaggi inviati o ricevuti tramite WhatsApp, oppure gli ordinari sms, così come le comunicazioni mail scaricate sul telefonino e/o conservati nella memoria dello smartphone, possono essere acquisite, non soggiacendo alla disciplina prevista per le intercettazioni, né a quella per la corrispondenza, in quanto costituiscono veri e propri documenti.
È bene pertanto fare una precisazione: per documenti (a cui il codice dedica un capo nel libro delle prove: artt. 234 e ss. c.p.p.) si intendono scritti, fotografie, pellicole cinematografiche, fonografiche o altri mezzi, rappresentativi di una realtà di fatto, di persone o di cose. Deve trattarsi di documenti formatisi fuori dal processo e che in questo entrano con finalità probatoria.
Valore probatorio chat WhatsApp

La Corte di Cassazione, quinta sez. penale, con la sentenza in commento, entra nel merito di una questione oggi molto dibattuta come la natura giuridica dei vari strumenti di comunicazione legati all’innovazione tecnologica, ed in particolare ai più moderni cellulari, come sms, messaggi WhatsApp, e-mail, ecc.
La pronuncia si inserisce nell’ambito di una tematica molto interessante e di grande attualità, che ha acceso numerosi dibattiti.
Nell’epoca attuale, questi strumenti hanno modificato il modo di comunicare tra le persone ed anche molte trattative di ordine commerciale si svolgono utilizzando queste nuove forme di comunicazione.
Diventa, pertanto, necessario capire come le nuove tecnologie abbiano influenzato e giochino un ruolo sempre più rilevante anche nel mondo del diritto, specialmente andando a integrare il contributo probatorio all’interno dei procedimenti giudiziari.
Nel caso di specie, l’indagato di un reato fallimentare si vedeva sequestrare alcuni beni, compreso lo smartphone, da cui venivano estratti i relativi contenuti informatici.
Il titolare di detti beni formulava ricorso in Cassazione contro l’ordinanza del Tribunale di Imperia che, in funzione di giudice del riesame, aveva confermato il decreto di sequestro probatorio disposto dal PM nei confronti di un’indagata avente, appunto, ad oggetto, tra l'altro, le e-mail spedite e ricevute da account in uso all'indagata, nonché il telefono cellulare del tipo smartphone, successivamente restituito previa estrazione di copia integrale dei dati informatici memorizzati (sms, messaggi WhatsApp, e-mail).
La ricorrente, per il tramite del suo difensore, eccepisce l’invalidità della procedura di acquisizione dei messaggi e delle e-mail, assumendo che si sarebbe dovuto adottare quella stabilita dall'art. 266 c.p.p. e ss., trattandosi di un’attività di intercettazione di flussi di comunicazioni telematiche.
Inoltre, lamenta violazione di legge per mancato rispetto del principio di proporzionalità e adeguatezza, essendosi proceduto, tramite duplicazione di copia forense, alla integrale e indiscriminata apprensione di tutti i dati archiviati nella memoria del telefono cellulare in uso all'indagata.
La ricorrente vede respinte le proprie motivazioni in quanto la Suprema Corte chiarisce che i dati informatici prelevati dalla memoria del telefono sottoposto a sequestro – come sms, messaggi WhatsApp e di posta elettronica “scaricati” e/o in essa conservati – hanno natura di documenti ai sensi dell’art. 234 c.p.p. (la norma fa riferimento a scritti o altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo) e, pertanto, ne è consentita l’acquisizione.
Di conseguenza la relativa attività acquisitiva, non soggiace né alle regole stabilite per la corrispondenza, né tantomeno alla disciplina delle intercettazioni telefoniche.
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Secondo l'insegnamento della Corte di legittimità, infatti, con riferimento a messaggi WhatsApp e SMS rinvenuti in un telefono cellulare sottoposto a sequestro, non è applicabile né la disciplina dettata dall’ art.254 c.p.p. o, in quanto questi testi non rientrano nel concetto di "corrispondenza", la cui nozione implica un'attività di spedizione in corso o comunque avviata dal mittente mediante consegna a terzi per il recapito (Sez. 3, n. 928 del 25/11/2015, dep. 2016, Giorgi, Rv. 2655991).
La disciplina dettata in materia di intercettazioni telefoniche, la quale postula, per sua natura, la captazione di un flusso di comunicazioni in corso, mentre nel caso di specie ci si è limitati ad acquisire ex post il dato, conservato in memoria, che quei flussi documenta.
Il principio di proporzionalità e adeguatezza
Per ciò che attiene al secondo motivo sollevato da parte della ricorrente, la Corte sostiene che il principio di proporzionalità e adeguatezza non è invocabile nella specie, poiché l'acquisizione di dati informatici mediante la cd. copia forense è una modalità conforme a legge, che mira a proteggere, nell'interesse di tutte le parti, l'integrità e affidabilità del dato così acquisito.
La stessa Corte, intervenendo in un caso analogo, ha già avuto occasione di chiarire che non merita censura, sotto il profilo dell'adeguatezza e proporzionalità, il sequestro di supporti contenenti dati informatici poi restituiti, previa estrazione di copia integrale della relativa memoria, poiché «l'attività di analisi per la selezione dei documenti contabili è particolarmente complessa investendo in toto l'attività imprenditoriale dell'indagato.
Né le operazioni di estrazioni di copia dei documenti rilevanti a tal fine avrebbe potuto essere condotta in loco in un limitato arco temporale, investendo l'attività di selezione una significativa attività di studio e analisi proprio al fine di un'eventuale selezione» (v. Sez. 5, n. 25527 del 27/10/2016).
Inoltre la doglianza sollevata dalla difesa in merito alla acquisizione di copia anche di documenti non rilevanti e, comunque, non sequestrabili siccome non pertinenti al reato o addirittura relativi al mandato difensivo, non inficia, secondo la Corte la validità del provvedimento di sequestro, per cui diventa irrilevante.
Per quanto riguarda l’ulteriore questione sollevata in ordine alla violazione del divieto di sequestro della corrispondenza tra indagato e difensore, ai sensi dell'art. 103 c.p.p., comma 6, la Corte osservare che, non vertendosi in tema di sequestro di corrispondenza per le ragioni esposte precedentemente, è inconferente il richiamo al divieto di cui al menzionato articolo.
Questa sentenza è destinata a fare storia. Per la prima volta dei messaggi scambiati in una chat acquisiscono valore legale al pari di una prova documentale. Ciò significa che il telefono diventa un tesoro di informazioni sempre più importante che va usato con estrema attenzione.
I messaggi di whatsapp e gli sms oltre a diventare per la prima volta prova, sono anche materiale inedito per i tribunali, ovvero non rientrano nelle norma stabilite per altro tipo di corrispondenza o per le intercettazioni.
Perché la nozione di corrispondenza implica un’attività di spedizione dal mittente al destinatario mediante l’attività di consegna di terzi. Non ricorre nemmeno l’intercettazione, perché questa richiede che venga captato un flusso di comunicazioni in corso.
Insomma, nel caso di sms e messaggi WhatsApp ci si limita a raccogliere il dato scaricato e conservato nella memoria del telefono e a portarlo, in caso serva, davanti ad un giudice.